Nelle scorse settimane è successa una cosa pazzesca: dopo aver letto l’ultimo libro di uno dei miei autori preferiti (The Many Daughters of Afong Moy di Jamie Ford), ho contattato l’autore, chiedendogli se fosse disponibile ad essere intervistato per il mio blog. Incredibilmente mi ha risposto… e mi ha risposto di sì! Rivelandosi essere, oltre che un autore pazzesco, anche una persona incredibilmente gentile e disponibile. Sono in estasi. Inizierò questo post con una breve recensione del libro*, subito dopo troverete l’intervista. In fondo al post metto anche le domande e risposte in originale (inglese).
*Nota: come al solito leggo i libri dei miei autori preferiti in lingua originale appena escono. Per l’edizione italiana in genere ci vuole un po’ di più. In questo caso non ho ancora trovato alcuna informazione su quando The Many Daughters of Afong Moy verrà pubblicato in Italia, ma appena ne verrò a conoscenza, lo renderò noto.
Titolo: The Many Daughters of Afong Moy
Autore: Jamie Ford
Anno: 2022
Per una fedele lettrice di Jamie Ford, questo libro porta con sé alcune novità. Innanzitutto la costruzione della storia: in questo suo ultimo romanzo la narrazione non segue lo svolgersi delle vicende, bensì salta attraverso lo spazio e il tempo, seguendo una linea diversa da quella cronologica ma, in questo caso, più carica di significato. Non è solo la struttura del romanzo ad essere nuova: Ford questa volta si discosta un po’ dal romanzo storico, per sconfinare nella narrativa speculativa. Il tema è assolutamente affascinante: si parla di epigenetica e di come abbia influenzato diverse generazioni di donne della stessa famiglia, dal 1834 fino ad arrivare nel futuro. Nonostante il tema e l’architettura della storia abbiano subito un’evoluzione, questo è inconfondibilmente un romanzo di Jamie Ford. La potenza della scrittura, la nitidezza dei personaggi (ti sembra di averli davanti in carne e ossa), il ritmo incalzante della storia e – non ultima – l’ambientazione a Seattle, non lasciano dubbi.
Spero di leggerlo presto anche in italiano e… magari anche di vederlo in tv (capirete di cosa sto parlando leggendo l’intervista qui sotto).
Mentre aspettiamo la versione in italiano, potete trovare il nuovo romanzo di Jamie Ford in originale qui se ordinate dalla Germania e qui se ordinate dal’Italia.
Intervista a Jamie Ford
Io: La prima cosa che ho notato iniziando a leggere The many daughters of Afong Moy è il diverso tipo di “costruzione” della storia. Ho letto tutti i suoi libri (compreso Middle, Lost and Found) e mi sembra che questo sia un nuovo modo di scrivere per lei. Come e perché questa evoluzione?
J.F.: Stamattina ho letto una citazione di David Bowie – non la ricordo esattamente – ma il succo era che non bisogna sentirsi a proprio agio come artisti. Se ci si trova a galleggiare, bisogna trascinarsi nella parte più profonda della piscina, dove i piedi non toccano il fondo. Questo nuovo libro è la mia versione di trascinarmi fuori dalla mia zona di comfort, di evolvermi, di terrorizzarmi (di abbracciare la paura di fallire). Inoltre, la mia lingua madre è la narrativa speculativa. È soprattutto ciò che ho letto crescendo. È stato quasi per caso che sono finito a scrivere narrativa storica. Riuscire a fondere le due cose è stato come parlare finalmente con la mia vera voce.
Io: Lei ha scritto che il suo primo incontro con l’epigentica è stato scoprire che suo figlio ha gusti musicali simili ai suoi, anche se lei non gli ha mai fatto conoscere i suoi gruppi preferiti – ed è più o meno così che è nata la storia. Come sono nati i personaggi? (E qual è il suo personaggio preferito del libro, se ne ha uno?)
J.F.: Sarò un po’ più onesto qui. La riflessione più profonda che non ho menzionato nella mia nota d’autore è che il mio migliore amico fin dall’infanzia è gay. Il migliore amico di mio figlio maggiore alle superiori ha fatto coming out con lui. Il migliore amico di mio figlio più piccolo alle superiori ha fatto coming out all’università. Certo, i miei figli sono musicisti e io sono uno scrittore, quindi siamo tutti artisti che frequentano altri artisti. Ho però trovato affascinante il fatto che, per qualche motivo, siamo costruiti in modo tale che emotivamente siamo molto a nostro agio (al sicuro, forse) nell’avere questo tipo di amicizie. Forse è una questione di quoziente emotivo, o il fatto di essere cresciuti in una famiglia che è sempre stata molto accettante, ma è una coincidenza molto interessante, oppure… è epigenetica.
Per quanto riguarda i personaggi, molti di loro mi frullavano in testa da tempo, ma non pensavo che le loro storie individuali fossero sufficienti per riempire un romanzo. Come insieme, però, era come se 1+1+1=10. C’era forza nell’insieme. Oh, e il mio personaggio preferito è Greta. È il personaggio con cui mi immedesimo di più a livello personale: è una secchiona, stacanovista, romantica e stramba, che lotta per integrarsi.
Io: So che lei è il discendente del pioniere minerario del Nevada Min Chung, emigrato dalla Cina. Come pensa che questo abbia influenzato la sua vita, se mai lo ha fatto?
J.F.: Lui ha lavorato nel settore minerario e dintorni, ma deve aver avuto qualche desiderio artistico, perché molti dei suoi figli hanno lavorato nel campo dell’arte. Mio nonno lavorò come comparsa in oltre 300 film di Hollywood. Cantava e suonava il pianoforte (anche il banjo, stranamente). Mio padre era un aspirante artista. Io scrivo. Molti dei miei figli si guadagnano da vivere con le arti (mia figlia Madi è una tatuatrice).
Credo che siamo sempre alla ricerca di qualcosa. Molto di questo è iniziato con il viaggio di Min in occidente.
Io: Ha sempre voluto diventare uno scrittore o lo ha scoperto più tardi nella vita?
J.F.: Da bambino avevo l’asma e mi ammalavo spesso, quindi i miei genitori non mi lasciavano mai giocare nella neve. Mi davano invece penne, carta, pennarelli e colori. Mi mettevo alla finestra, imbronciato, e guardavo i miei fratelli maggiori felici, che vivevano quella che sembrava la più epica delle giornate di neve. Poi andavo a disegnare o a scrivere. Credo che l’arte ci sia sempre stata, sia sempre stata un conforto. Per questo motivo, mia madre voleva che diventassi uno scrittore e mio padre m’incoraggiava a diventare un artista. A fare qualcosa con quella vita interiore. Sono cresciuto e ho lavorato per anni come art director, ma ho sempre scritto nel tempo libero. Solo a trent’anni ho iniziato a prendere sul serio la scrittura e a immaginare la folle possibilità di guadagnarmi da vivere così.
Io: Seattle sembra sempre avere un posto di rilievo nelle sue storie. Le va di raccontarci qualcosa sul suo rapporto con questa città?
J.F.: Seattle è la casa del mio cuore. È dove si trova la maggior parte della mia famiglia cinese. È qui che mi si è spezzato il cuore, che ho perso la verginità, che ho bevuto la mia prima birra, tutte le cose significative della mia vita da giovane sono accadute nella Città di Smeraldo e nei suoi dintorni. Inoltre, trovo che gli scrittori spesso scrivano di ciò di cui piangono la scomparsa. Mi manca la Seattle della mia infanzia, che esiste solo nella memoria. C’è un grande testo di Jason Isbell che dice: “Papà ha detto che il fiume ti porterà sempre a casa, ma il fiume non può portarti indietro nel tempo, e papà è morto e se n’è andato”. È così che mi sento riguardo a Seattle.
Io: Pur essendo io europea e vivendo in Germania – dove pare sia stata fondata la scuola – non avevo mai sentito parlare della Summerhill School. Penso che sia un concetto pedagogico affascinante… Le piacerebbe aver frequentato una scuola del genere e/o ci manderebbe i suoi figli, se ne avesse la possibilità?
J.F.: Di fronte al mio liceo c’era un centro di apprendimento alternativo chiamato The Mind Gallery. Quel posto mi affascinava e mi terrorizzava allo stesso tempo. Più tardi ho saputo che si trattava di una delle prime scuole superiori alternative degli Stati Uniti, sul modello di Summerhill. Da quel momento in poi ne diventai ossessionato. Lessi ogni libro su Summerhill, lessi le memorie degli ex studenti e ogni libro scritto dal suo creatore e preside, A.S. Neill. Facevo parte di un programma per bambini dotati, quindi un posto come Summerhill sarebbe stato la scuola dei miei sogni. Lo è ancora. Ci avrei mandato volentieri i miei figli.
Io: Ho sentito dire che The Many Daughters of Afong Moy sarà trasformato in una serie televisiva. È vero e può dirci qualcosa di più al riguardo?
J.F.: È stato opzionato. A questo punto devo aggiungere l’avvertenza che molti libri vengono opzionati e pochi riescono a essere portati sullo schermo. Detto questo, sono cautamente fiducioso. C’è un fantastico sceneggiatore impegnato a lavorare sulla sceneggiatura, quindi… * dita incrociate *
Io: Già che ci siamo, qualche anno fa si vociferava di un adattamento cinematografico di The Hotel on the Corner of Bitter and Sweet. Il progetto è ancora attuale?
J.F.: È ancora in fase di sviluppo. Sono più cauto che fiducioso. Con questo voglio dire che siamo al terzo sceneggiatore (quarto se si aggiunge il regista, quinto se si aggiunge un produttore). So che è così che opera Hollywood, ma per me è come essere in un ristorante e avere il cameriere che torna al tavolo dopo sei anni e ti informa: “Ehm, sì, la tua cena sarà pronta a breve, siamo al terzo chef perché i proprietari del ristorante non riescono a capire se quello che hai nel piatto è pesce o vitello”.
Io: Sta già pensando al prossimo libro?
J.F.: Sì, quindi sarò breve: concludo qui e torno al libro. Cheers
Qui sotto invece l’intervista in originale (inglese)
Q: The very first thing I noticed while starting to read The Many Daughters of Afong Moy is the different kind of “construction” of the story. I read every book of yours (including Middle, Lost and Found) and I feel this is a new way of writing for you. How and why this evolution?
I just read a quote by David Bowie this morning—I don’t remember it exactly—but the gist of it was that you shouldn’t be comfortable as an artist. That if you find yourself treading water you should drag yourself into the deeper end of the pool, where your feet can no longer touch the bottom. This new book is my version of dragging myself out of my comfort zone, evolving, terrifying myself (embracing that fear of failure). Plus, my mother-tongue really is speculative fiction. It’s primarily what I read growing up. It was almost by accident that I ended up writing historical fiction. So being able to blend the two was like finally speaking in my actual voice.
Q: You wrote that your first glimpse of “epigenesis” was finding out that your son has a similar music taste to yours, although you never introduced him to your favorite bands – and this is more or less how the story came to life. How did the characters come to you? (And who is your favorite character from the book, if you have one?)
I’m going to be a bit more honest here. The deeper reflection that I didn’t mention in my author’s note is that my best friend since childhood is queer. My older son’s best friend in high school came out to him. My younger son’s best friend in high school came out in college. Granted, my sons are musicians and I’m a writer, so we’re all artists hanging with other artists. But I found it fascinating that for whatever reason, we’re constructed in a way that emotionally, we’re very comfortable (safe, perhaps) to have those type of friendships. Maybe it’s an emotional IQ thing, or growing up in a family that was always very accepting, but it’s a very interesting coincidence, or…it’s epigenetics.
As far as characters, many of them had been bouncing around in my head for a long time, but I didn’t think their individual stories were enough to fill a novel. But as an ensemble, it was like 1+1+1=10. There was strength in the aggregate. Oh, and my favorite character is Greta. She’s the character that I relate to the most on a personal level—she’s a geeky, workaholic, romantic oddball, who struggles to fit in.
Q: I understand you are the descendant of Nevada mining Pioneer Min Chung, who emigrated from China. How do you think this shaped your life, if at all?
He worked in and around mining, but must have had some artistic yearnings, because many of his children worked in the arts. My grandfather worked as an extra in 300+ Hollywood films. He sang and played the piano (also the banjo, oddly enough). My dad was an aspiring fine artist. I write. Many of my children make their living in the arts (my daughter, Madi, is a tattoo artist).
I think we’re always searching for something. Much of that begins with Min’s journey to the west.
Q: Did you always want to become a writer or did you find it out later in life?
I had asthma and was often sick as a child, so my parents would never let me play in the snow. Instead they gave me pens and paper and markers and paints. I’d stand at the window, sulking, staring out at my happy older siblings, having what appeared to be the most epic of snow days. Then I’d go draw or write. I guess the art thing was always there, always a comfort. Because of that, my mom wanted me to be a writer and my dad encouraged me to be an artist. To do something with that interior life. I grew up and worked as an art director for years, but always wrote on the side. Only in my 30s did I being to take writing seriously and being imagining the insane possibility of being to make a living at it.
Q: Seattle always seems to have a prominent place in your stories. Do you care to tell us something about your relationship to this city?
Seattle is the home of my heart. It’s where most of my Chinese family is. It’s where I first had my heart broken, lost my virginity, had my first beer, all of the significant formative things in my younger life happened in and around the Emerald City. Plus, I find that writers often write about what they lament. I miss the Seattle of my childhood, which only exists in memory. There’s a great lyric by Jason Isbell that goes: “Daddy said the river will always take you home, but the river can’t take you back in time, and Daddy’s dead and gone.” That’s how I feel about Seattle.
Q: Despite being European and living in Germany – where the school was apparently first founded – I never heard before of Summerhill School. I think this is a fascinating pedagogic concept… Do you wish you went to such a school and/or would you send your children, given the possibility?
Across from my high school was an alternative learning center called The Mind Gallery. I was both fascinated and terrified of that place. Later in life I learned it was one of the first alternative high schools in the US, modeled after Summerhill. From that moment on I became obsessed. I read every book about Summerhill, read memoirs of former students, and every book written by its creator and headmaster, A.S. Neill. I was in a program for gifted children, so a place like Summerhill would have been my dream school. It still is. I’d have happily sent my kids there.
Q: I heard that The Many Daughters of Afong Moy is being turned into a tv series. Is it true and can you tell us something more about it?
It’s been optioned. This is where I need to add the caveat that many books get optioned and precious few ever actually make it to the screen. That being stated, I’m cautiously hopeful. There’s an amazing screenwriter busy working on the script, so… * fingers crossed *
Q: While we are at it, some years ago there were rumors about The Hotel on the Corner of Bitter and Sweet being adapted to a movie. Is the project still current?
It’s still in development. I’m more cautious than hopeful. By that I mean, they’re on their 3rd screenwriter (4th if you throw in the director, 5th if you throw in a producer). I know that’s how Hollywood operates, but to me, it’s like being in a restaurant and having your waiter come back to the table after six years and inform you, “Um, yeah, your dinner will be out shortly, we’re on our third chef because the owners of the restaurant can’t figure out if the thing on your plate is fish or veal.”
Q: Are you already thinking about the next book?
I am. I’ll keep this answer short and get back to it. Cheers
Per altri consigli di lettura, potete guardare la pagina Libri.
Qui invece un’altra mia intervista letteraria.
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